Creatività al lavoro

“L’età conta solo quando uno sta invecchiando.
Ora che sono arrivato a una veneranda età, potrei benissimo avere vent’anni”
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(Pablo Picasso)

È sempre più evidente che l’economia di intere nazioni oggi dipende dalla ricerca di base e tecnologica, dalla capacità di combinare conoscenze e dal “potenziale creativo” presente nella popolazione. Lo sviluppo e la crescita economica di un popolo e delle singole persone non sono garantite, oggi, solamente dalla possibilità di accedere alle “materie prime” e dallo sviluppo dell’apparato industriale, ma anche e soprattutto, dalla formazione e dalla cultura, dalla salute e dalla responsabilizzazione personale, dalla crescita del senso civico e comunitario, dall’impegno di volontariato e per l’ambiente.

Cioè dal “tipo” di rapporti e dalla capacità di “cura” vissuta nelle relazioni quotidiane, cioè dalla qualità della vita che concretamente si riesce a realizzare.

Un professionista se ha passione per il suo lavoro ed è esperto della materia, diviene a forza di cose “creativo” perché trova soluzioni “innovative” ai problemi che incontra. Del resto, molti posti di lavoro, oggi dipendono, dalla capacità d’innovazione e di creatività presenti all’interno di un’azienda e nel territorio. La vita di tutti i giorni è il banco di prova che chiede di risolvere i problemi e prendere decisioni solo per questa ragione c’è bisogno di “creatività”. La creatività è la culla del lavoro e dello sviluppo economico.


La creatività è lavoro

Il lavoro è sempre più acquisizione di “conoscenze” ed “esperienze”, utili non tanto al “professionista”, ma piuttosto alla “persona”. Chi è alla “ricerca” di un lavoro - tra le opportunità offerte, dalla vecchia e nuova economia – è facilitato notevolmente se possiede una discreta formazione di base, le competenze necessarie per l’utilizzo delle nuove tecnologie, conosce almeno una lingua straniera (possibilmente due), se è disponibile alla formazione continua, e ad apprendere sempre. Le “qualità umane” (l’ascolto, l’accoglienza, l’empatia, i valori: solidarietà e fiducia) sono decisive, anzi fondamentali. L’economia e il lavoro hanno bisogno di creatività, di vocazioni.

Spesso il problema più significativo per mettere su un’attività non sono i soldi, i capitali, ma la carenza di immaginazione e di intuizione. Per questa ragione la creatività è un elemento molto importante nella vita lavorativa come nel quotidiano. Chi è creativo sperimenta modi diversi di fare le stesse cose, mettendo nel conto gli errori. Il “lavoro”, oggi, non si cerca, si “inventa” continuamente. Dal flusso dei dati e dalle informazioni si generano conoscenze e da queste nasce il sapere. È il sapere che genera le idee e da queste nascono i progetti, e da questi quando sono realizzati, i prodotti e i servizi. Albert Einstein amava dire: “Una persona che non abbia mai commesso un errore non ha mai cercato di fare qualcosa di nuovo”. La creatività è il segreto del “lavoratore della conoscenza” che “gestisce in modo innovativo” le informazioni, generando “nuove conoscenze” e “nuove correlazioni”.


“Non cercare lavoro, ma crealo!”

Il lavoro oggi si traduce con le parole “creare opportunità” per se e per gli altri. Opportunità di crescita economica, umana, relazionale, culturale. “Sii imprenditore di te stesso”, questo sembra chiedere l’ambiente sociale e il modello economico che si sviluppa e cresce nelle società avanzate. Il lavoro, è “finito” per questo è inutile cercarlo, ma è utile crearlo e inventarlo.

Ma chi è l’imprenditore? L’imprenditore è colui che si assume il rischio. È un temerario. Fa “impresa” per mettersi in gioco e creare opportunità. È la fiducia che ripone in se stesso, nelle capacità acquisite, nelle abilità cognitive, nella volontà di orientarsi verso nuove e più impegnative mete che lo spinge ad andare oltre, ad osare ad avere fiducia. A prima vista, questo può sembrare un discorso egoistico, ma non lo è, perché nessuno può realizzare un’ “impresa” da solo.

Creare il proprio futuro vuol dire inventare, sognare insieme e non da soli. Un’impresa deve essere condivisa, in qualche modo, con gli altri e dagli altri. Il “lavoro” inizia quando senti l’esigenza di condividere un’idea, una visione che può suscitare l’espressione: “Perché no?”. Creare “lavoro” è un’ po’ come giocare. Il lavoro è un gioco che ha bisogno di altri verbi per avverarsi: scoprire, cambiare, servire, informare, trasformare, migliorare, rallegrare, collaborare, creare, innovare, investire. Si impara a giocare e a lavorare piano piano, un po’ alla volta. Quante volte capita di fare e rifare le stesse cose prima d’arrivare a farle bene? Quante volte si inizia in un modo e poi ci si accorge che era necessario cambiare qualcosa?

A tutti è chiesto di “fare bene ciò che si è chiamati a fare”, per realizzarsi nel lavoro e per far emergere le attitudini, i carismi, le doti, le qualità che si possiedono, in altre parole vivere la propria “vocazione”.


Non solamente rose

Non sono tutte rose e fiori. Non è sufficiente la “creatività” e la “fiducia in se stessi”, per risolvere il problema della disoccupazione. Lavoro, sempre più spesso, significa precarizzazione e flessibilità. In altre parole, aumenta il lavoro nero, cresce il numero di occupati con contratti di lavoro “atipico” (a tempo determinato, tempo parziale, collaborazione) che generano una crescente precarizzazione dell’attività lavorativa e insicurezza nella vita della persona. Il numero dei lavoratori che non possiedono una forma di sufficiente copertura pensionistica e/o sanitaria sta aumentando.

Anche il tasso d’ “anzianità” all’interno delle aziende sta diminuendo a causa di una forte mobilità, cioè del passaggio da una occupazione ad un'altra. Il licenziamento è lo strumento di “gestione” delle crisi più utilizzato. La riduzione del personale è la politica adottata nelle “azioni di risanamento” e spesso nasconde l’evidente incapacità avuta dal management nella gestione dell’azienda. Accade di vedere, sempre più spesso, che un’azienda più licenza, più aumenta propria quotazione in borsa.


La conoscenza è lavoro

La conoscenza è il motore dell’economia, oggi è vero e lo sarà ancor di più domani. È la prima volta, nella storia dell’umanità, che l’economia e lo sviluppo economico, nel suo complesso, dipende e si fonda sulla capacità di utilizzare le conoscenze acquisite e generate. Molte aziende e molti posti di lavoro dipendono dalla capacità che l’azienda (nel suo complesso) ha di rispondere ai cambiamenti del mercato mondiale e della domanda dei consumatori. Le aziende che non sapranno rispondere ai cambiamenti saranno quasi certamente condannate al fallimento. Come milioni d’anni fa quando i coccodrilli si adattarono all’ambiente, a differenza dei dinosauri che non sopravvissero ai mutamenti del pianeta.

Come fa un’azienda a condividere conoscenza a divenire un luogo nel quale si possono tranquillamente proporre nuove idee? Se le persone temono di assumersi dei rischi e non si fidano le une delle altre, è possibile essere creativi? Crescere è anche fare errori. Avere una visione non solo personale, ma collettiva o meglio comunitaria, degli avvenimenti e dello sviluppo dell’azienda è importante, per questa ragione l’informazione deve circolare. Ciò che aiuta a costruire un’organizzazione che scambia informazioni ed è, essa stessa, orientata all’innovazione continua è la fiducia e la responsabilizzazione delle persone.


Perché fare comunità?

Osservando la storia dell’umanità possiamo vedere che la vera forza dell’essere umano è stata, sin dagli albori, la comunità. La “community” la ritroviamo anche nell’era di internet, dell’e-commerce e della globalizzazione, della cultura locale e della mondializzazione. Per queste ragioni forse sta crescendo la “voglia” e il “bisogno” di dare risposte “significative” e “profonde” ai personali frammenti di vita. Oggi la comunità conta molto di più di quanto comunemente si possa credere. L’esigenza è quella di “ri” – “costruire” comunità per creare conoscenza e lavoro, al fine di gestire al meglio i processi economici.

Cresce, anche nel web, la voglia di “fare comunità”. Il rischio vero è quello di creare comunità “artificiali”, “pre – costituite”, tribù della notte e non comunità autentiche e vere. Le comunità “pre – costituite” sono quelle che nascono e non si radicano, che parlano e non dialogano, che sono autosufficienti e non interagiscono con gli altri. La comunità, vera e autentica, è adesione e relazione personale, anche conflittuale, alle radici, alla storia, ai valori che la fondano e la costituiscono.

Quand’anche si riuscisse a creare comunità autentiche che condividono, esse restano costantemente bisognose di vigilanza. La comunità, di per se, non da sicurezza. La tranquillità che offre deve essere curata giorno dopo giorno, è una conquista. È una risposta alla voglia di appartenere a valori più alti che si esprime non da soli, ma con gli altri. Chi “costruisce comunità” sa che la convivenza è difficile tra le persone per questo si sente responsabile e tende alla comunione, favorendo il perdono e la riconciliazione.


Il lavoro e la comunità

Le aziende, grandi e piccole, che hanno successo e che avranno successo nel futuro, saranno segnate dalla capacità di organizzarsi come “comunità che apprendono”, cioè come organizzazioni che sono capaci di condividere conoscenze. Le aziende che si organizzano in questo modo tendono a porre la persona umana al centro perché valorizzano le competenze e le conoscenze degli individui, perché sanno che solo così è possibile ottenere innovazione e crescita economica stabile.

Con lucidità nel 1991, Giovanni Paolo II, a Fabbriano ai lavoratori della Merloni ricordava: “L’azienda mai deve essere considerata come un’organizzazione verticale, nella quale alcune persone sono al servizio esclusivo degli scopi di altre e del loro vantaggio economico. Essa deve essere vista piuttosto come un luogo d’incontro di tante persone, le quali, in modo sinergico, s’impegnano ad operare per la produzione di beni o di servizi destinati al benessere di tutti. Solo in un’azienda concepita come comunità si è in grado di salvaguardare la vera dignità del lavoro e dei lavoratori la capacità di lavoro di una persona non è merce che si vende e si acquista è, al contrario, qualcosa di proprio, anzi di sacro, che Dio concede a ciascuno innanzitutto per realizzarsi come persona”.